«Se c'è una figura che incarna lo spirito pastoriano è proprio Francoise – racconta Gianfranco Pancino, che all'Istituto Pasteur dirige proprio un'equipe in seno all'Unità di regolazione delle infezioni retrovirali del premio Nobel Françoise Barré-Sinoussi –. Nel senso che è riuscita a coniugare la ricerca di base con l'intervento diretto sulle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, come a Ho Chi Minh, in Cambogia, dove si trovava quando ha saputo di aver vinto il prestigioso riconoscimento».
Si parla di "spirito pastoriano" proprio perchè effettivamente il modello sviluppato da Pasteur e trasmesso alle varie generazioni è un modello in cui la ricerca fondamentale è vista e pensata direttamente in relazione ai problemi di salute pubblica. «Il rapporto tra ricerca e applicazione della scienza è visto sempre in maniera dinamica e diretto verso i problemi delle popolazioni locali – riprende Pancino, che è anche direttore di Ricerca Inserm, Institut national de la santé et de la recherche médicale –. Da qui, il network di istituti Pasteur nel mondo, uno è anche a Roma, che tende a coniugare la ricerca fondamentale che si fa a Parigi con le necessità che evolvono nei punti caldi del pianeta, dove le patologie infettive sono maggiormente presenti. Io stesso ho vissuto questa esperienza: sono entrato per concorso nel 1999 proprio perchè potevo sviluppare un progetto di ricerca sull'Hiv in diretto contatto con le popolazioni a rischio. Cosa che nessun altro istituto poteva offrirmi».
Il concetto infatti è: a partire da un evidenza virologica si avvia una ricerca genetica che porta poi alla terapia. «Questo paradigma – commenta Pancino – ci ha permesso di aprire nuove linee di ricerca, soprattutto nel campo del virus dell'Aids. Sappiamo che alcune persone, nonostante l'esposizione al virus, non si infettano. Noi, come altre équipe, cerchiamo di mettere in luce i meccanismi di resistenza. E la scoperta che ci ha aperto nuove vie è il fatto di aver trovato nella popolazione vietnamita un'attività molto elevata di un tipo di cellule dell'immunità innata: le natural killer (nk), che rappresentano il 10-15% dei linfociti sanguigni, e che sono importanti nella sorveglianza di tumori e altre infezioni. Questo ha sviluppato l'ipotesi che un'attivazione di questa difesa possa partecipare alla lotta contro l'infezione. E si sono già avviate ricerche genetiche e immunologiche per identificare le molecole implicate in queste difese». Un'altra ricerca di punta viene poi svolta in Francia, sui cosiddetti élite controller, persone sieropositive che però controllano benissimo l'infezione senza alcuna terapia. «Il fatto che riescano a convivere da più di 10 anni con l'Hiv senza ammalarsi sembra legato alle cellule T CD8 – spiega Pancino –. Questo è molto importante perchè per la prima volta, in accordo con la comunità scientifica, ci sono evidenze che una risposta immunitaria può effettivamente controllare l'infezione. Adesso lo sforzo è di individuare i meccanismi attraverso i quali questa risposta è generata e come stimolarla». Che è poi la strada del vaccino terapeutico anticipato da Montagnier il giorno dell'assegnazione del Nobel. «Io sarei più prudente riguardo al tempo necessario: 4 anni mi sembrano pochi...»
All'Istituto Pasteur sono una dozzina i gruppi impegnati nella ricerca dell'Aids. «C'è una ricerca di fisiopatologia, che ha come modello di studio un'infezione che colpisce le scimmie africane – spiega Pancino –. Si cerca di capire come mai il sistema immunitario di questi animali non si iperattiva quando entra in contatto col virus». Una delle cause presunte dell'immunodeficienza acquisita infatti non è solo la replicazione virale, ma l'attivazione generalizzata di tutto il sistema immunitario, che porta a poco a poco alla distruzione degli organi linfoidi. Nella persona infettata dall'Hiv si attivano subito in modo generico tutte le cellule T e B, come se il sistema immunitario fosse impazzito. «Poi c'è la ricerca sviluppata dal team di Olivier Schwartz sull'induzione della risposta immunitaria da parte delle cellule dendritiche e le loro interazioni con le cellule T. Ma anche quella sui vaccini e in particolare lo sviluppo di una preparazione basata sul virus del morbillo».
Essere pastoriani, insomma, è una fede come diceva Émile Roux, il primo amministratore del centro di ricerca parigino: «Per costituire un istituto Pasteur non bastano i laboratori più innovativi, la ricerca e l'insegnamento, ma occorre introdurre lo spirito pastoriano, cioè la fede scientifica che significa dedizione al lavoro, immaginazione, perseveranza, spirito critico e rigore sperimentale, ma anche indipendenza e autonomia che sono la conseguenza dell'amore appassionato per la verità».
E in effetti, fin dalla sua creazione, l'Istituto Pasteur si è distinto dagli altri centri di ricerca per alcune peculiarità, prima tra tutte le persone. Pasteur ha infatti creato una nuova specie di ricercatore, il pastoriano, reclutato un po' ovunque nel mondo. Di formazione scientifica o medica, il pastoriano è colui che è rimasto a lungo ai margini delle strutture e delle carriere ufficiali, "medico senza pazienti, farmacista senza laboratorio, chimico senza industria, universitario senza cattedra..." spiegava lo stesso Pasteur. Questa diversità di formazione e di talenti riuniti in uno stesso luogo per studiare una stessa materia nei suoi vari aspetti è poi quello che oggi chiamiamo ricerca interdisciplinare.
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